Ho una figlia di 17 anni e, forse sarò all’antica, ma le ho sempre detto che usare le parolacce è un segno di povertà linguistica, un’indicazione del fatto che si hanno poche parole a disposizione o che non si conosce abbastanza bene l’italiano per esprimersi diversamente. So bene che con le sue amiche parla in un altro modo, me ne accorgo quando la vado a prendere e, immersa nelle loro conversazioni, si lascia andare. Ma io ci provo comunque a farle capire che, anche se oggi le parolacce sono sdoganate, non sono il modo più corretto di relazionarsi con gli altri.
Tra i giovani vanno molto artisti come Sfera Ebbasta e Tony Effe (mamma mia…), e le loro canzoni sono spesso piene di parolacce, per non dire altro. Le ripeto sempre che se un cantante le usa in modo eccessivo, quasi come un intercalare, è evidente che non sa scrivere bene in italiano. In quei casi il testo serve solo a riempire la canzone o, in alcuni casi, a provocare volutamente. Eppure, ci sono tantissimi artisti talentuosi, anche tra i più moderni, che riescono a scrivere ottimi testi senza ricorrere a volgarità.
Non ho nulla contro le parolacce in assoluto: in certi contesti sono il modo più efficace per esprimere un’emozione, sia in una canzone che in un racconto. Ma quando iniziano a predominare, mi chiedo se il loro uso sia realmente necessario o se serva solo a scioccare, a seguire una moda o, semplicemente, a colmare una mancanza di parole. Non è il caso di Pennac, anche se in alcuni punti avrei preferito altre scelte lessicali, ma in generale credo che la nostra lingua, così ricca di sfumature, meriti di essere sfruttata appieno (ok, lui è francese ma la sua lingua è abbastanza ricca come la nostra). Ovviamente, se un autore deve far parlare un personaggio popolare, è naturale che utilizzi un linguaggio adeguato al contesto.
Quello che cerco di insegnare a mia figlia è proprio questo: ogni situazione ha il suo registro linguistico e, se si evitano le parolacce, non si sbaglia mai. Ogni tanto, per fortuna raramente, le scappa qualche espressione colorita. Non la rimprovero, ma le chiedo sempre di sforzarsi di trovare un’alternativa a quella parola.